OMELIA DI PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

La Famiglia – 19. Lutto

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel percorso di catechesi sulla famiglia, oggi prendiamo direttamente ispirazione dall’episodio narrato dall’evangelista Luca, che abbiamo appena ascoltato (cfr Lc 7,11-15). E’ una scena molto commovente, che ci mostra la compassione di Gesù per chi soffre – in questo caso una vedova che ha perso l’unico figlio – e ci mostra anche la potenza di Gesù sulla morte.

La morte è un’esperienza che riguarda tutte le famiglie, senza eccezione alcuna. Fa parte della vita; eppure, quando tocca gli affetti familiari, la morte non riesce mai ad apparirci naturale. Per i genitori, sopravvivere ai propri figli è qualcosa di particolarmente straziante, che contraddice la natura elementare dei rapporti che danno senso alla famiglia stessa. La perdita di un figlio o di una figlia è come se fermasse il tempo: si apre una voragine che inghiotte il passato e anche il futuro. La morte, che si porta via il figlio piccolo o giovane, è uno schiaffo alle promesse, ai doni e sacrifici d’amore gioiosamente consegnati alla vita che abbiamo fatto nascere. Tante volte vengono a Messa a Santa Marta genitori con la foto del figlio, della figlia, del bambino, del ragazzo, ragazza e mi dicono: “se n’è andato”. Lo sguardo è tanto addolorato, la morte tocca e quando è un figlio, tocca profondamente. Tutta la famiglia rimane come paralizzata, ammutolita. E qualcosa di simile patisce anche il bambino che rimane solo, per la perdita di un genitore, o di entrambi. Quella domanda: “dov’è papà? Dov’è mamma? È in cielo e perché non lo vedo?” Questa domanda che copre un’angoscia nel cuore del bambino e della bambina. Rimane solo. Il vuoto dell’abbandono che si apre dentro di lui è tanto più angosciante per il fatto che non ha neppure l’esperienza sufficiente per “dare un nome” a quello che è accaduto. “Quando torna papà? Quando torna mamma?” Cosa si risponde? E il bambino soffre e così è la morte in famiglia.

In questi casi la morte è come un buco nero che si apre nella vita delle famiglie e a cui non sappiamo dare alcuna spiegazione. E a volte si giunge persino a dare la colpa a Dio. Quanta gente – io la capisco – si arrabbia con Dio, bestemmia: “perché mi hai tolto il figlio o la figlia?” “Dio non c’è, Dio non esiste, perché ha fatto questo?” Tante volte abbiamo sentito questo. Questa rabbia viene dal cuore del dolore grande: la perdita di un figlio o di una figlia, del papà, della mamma; è un grande dolore e questo accade continuamente nelle famiglie.

In questi casi – ho detto – la morte è quasi come un buco ma la morte fisica ha anche dei complici che sono anche peggiori di lei, e che si chiamano odio, invidia, superbia, avarizia; insomma, il peccato del mondo che lavora per la morte e la rende ancora più dolorosa e ingiusta. Gli affetti familiari appaiono come le vittime predestinate e inermi di queste potenze ausiliarie della morte, che accompagnano la storia dell’uomo. Pensiamo all’assurda “normalità” con la quale, in certi momenti e in certi luoghi, gli eventi che aggiungono orrore alla morte sono provocati dall’odio e dall’indifferenza di altri esseri umani. Il Signore ci liberi dall’abituarci a questo!

Nel popolo di Dio, con la grazia della sua compassione donata in Gesù, tante famiglie dimostrano con i fatti che la morte non ha l’ultima parola e questo è un vero atto di fede. Tutte le volte che la famiglia nel lutto – anche terribile – trova la forza di custodire la fede e l’amore che ci uniscono a coloro che amiamo, essa impedisce già ora, alla morte, di prendersi tutto. Il buio della morte va affrontato con un più intenso lavoro di amore. “Dio mio, rischiara le mie tenebre!”, è l’invocazione della liturgia della sera. Nella luce della Risurrezione del Signore, che non abbandona nessuno di coloro che il Padre gli ha affidato, noi possiamo togliere alla morte il suo “pungiglione”, come diceva l’apostolo Paolo (1 Cor 15,55); possiamo impedirle di avvelenarci la vita, di rendere vani i nostri affetti, di farci cadere nel vuoto più buio.

In questa fede, possiamo consolarci l’un l’altro, sapendo che il Signore ha vinto la morte una volta per tutte. I nostri cari non sono scomparsi nel buio del nulla: la speranza ci assicura che essi sono nelle mani buone e forti di Dio. L’amore è più forte della morte. Per questo la strada è far crescere l’amore, renderlo più solido, e l’amore ci custodirà fino al giorno in cui ogni lacrima sarà asciugata, quando «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (Ap 21,4). Se ci lasciamo sostenere da questa fede, l’esperienza del lutto può generare una più forte solidarietà dei legami famigliari, una nuova apertura al dolore delle altre famiglie, una nuova fraternità con le famiglie che nascono e rinascono nella speranza. Nascere e rinascere nella speranza, questo ci dà la fede; ma io vorrei sottolineare l’ultima frase del Vangelo che oggi abbiamo sentito: dopo che Gesù fa tornare alla vita questo giovane figlio della mamma che era vedova, dice il Vangelo: “Gesù lo restituì a sua madre” e questa è la nostra speranza! Tutti i nostri cari che se ne sono andati, tutti! Il Signore ci restituirà a noi e noi con loro ci incontreremo insieme e questa speranza non delude! Ricordiamo bene questo gesto di Gesù: « E Gesù lo restituì a sua madre» (Lc 7,15). Così farà il Signore con tutti i nostri cari nella famiglia.

Questa fede ci protegge dalla visione nichilista della morte, come pure dalle false consolazioni del mondo, così che la verità cristiana «non rischi di mischiarsi con mitologie di vario genere», cedendo ai riti della superstizione, antica o moderna» (Benedetto XVI, Angelus del 2 novembre 2008).

Oggi è necessario che i Pastori e tutti i cristiani esprimano in modo più concreto il senso della fede nei confronti dell’esperienza famigliare del lutto. Non si deve negare il diritto al pianto: anche Gesù «scoppiò in pianto» e fu «profondamente turbato» per il grave lutto di una famiglia che amava (Gv 11,33-37). Possiamo piuttosto attingere dalla testimonianza semplice e forte di tante famiglie che hanno saputo cogliere, nel durissimo passaggio della morte, anche il sicuro passaggio del Signore, crocifisso e risorto, con la sua irrevocabile promessa di risurrezione dei morti. Il lavoro dell’amore di Dio è più forte del lavoro della morte. E’ di quell’amore, proprio di quell’amore che dobbiamo farci “complici” operosi, con la nostra fede! E ricordiamo quel gesto di Gesù: « E Gesù lo restituì a sua madre» (Lc 7,15) così farà con tutti i nostri cari e con noi quando ci incontreremo, quando la morte sarà definitivamente sconfitta in noi – lei è sconfitta dalla Croce di Gesù – Gesù ci restituirà in famiglia a tutti.

Grazie.

Mercoledì, 17 giugno 2015